23 Settembre 2020

PEN15 seconda stagione – Crescere che fatica di Diego Castelli

Torniamo a parlare di una serie che ora merita un approfondimento in più

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Era febbraio del 2019 quando parlammo per la prima volta di PEN15, la serie di Hulu creata da Maya Erskine e Anna Konkle, in cui le due autrici interpretano due ragazze delle medie, nonostante il loro (ovvio) aspetto di donne sulla trentina.
E quando ne parlò il Villa, dopo pochi episodi, avevamo giusto scalfito la superficie di una serie che mostrava già un buon potenziale, ma che ancora doveva svilupparsi in tutta la sua potenza o, al contrario, incartarsi in un gioco stucchevole. Ecco, siccome la seconda parte della prima stagione fu molto superiore gli episodi iniziali, e considerando che è appena uscita una seconda stagione forse di minore impatto complessivo, ma capace di sviluppare i personaggi in una direzione più stringente, mi sembra giusto parlarne un’altra volta.

Se non sapete di cosa stiamo parlando e/o non avete voglia di leggere il vecchio articolo, ripetiamo che PEN15 è una serie ambientata nei primi anni Duemila, in cui due ragazzine, fra loro migliori amiche, affrontano i primi segnali della pubertà e dell’adolescenza con tutto l’ovvio portato di entusiasmi, paure, imbarazzi, speranze, disagi, scoperte. Con l’unica differenza, rispetto a qualunque altra serie di questo tipo, che le attrici protagonisti sono appunto trentenni, e si muovono in mezzo a un cast di tredici-quattordicenni come se niente fosse.
Questa idea, inizialmente, ha un impatto abbastanza forte in termini di grottesco, colpisce per la sua stranezza, e non nego che può perfino dare fastidio: vedere queste due donne adulte che si comportano in un modo che, ai nostri occhi, non può che farcele passare come due sceme totali, può essere addirittura respingente, come se stessimo guardando una cosa troppo idiota e soprattutto ingiustificata, per avere in dono il nostro prezioso tempo seriale.
Addirittura, e lo dico con un sorriso ma neanche troppo, poteva passare per un approccio un po’ immorale: considerando che ovviamente le protagoniste dello show sbavano dietro ai loro compagni, che sono effettivamente attori ultra-minorenni, provate a pensare cosa sarebbe successo se i protagonisti di PEN15 fossero attori maschi e adulti che si struggono per le ragazzine. Non proprio la stessa cosa, giusto? O forse dovrebbe?

In realtà, però, non solo la scelta non è stupida o ingiustificata, ma permette un lavoro di analisi e di approfondimento che altrimenti sarebbe impossibile, ed era quello che il Villa aveva accennato quando faceva notare, giustamente, che serie con protagonisti dei ragazzi delle medie sono più rare, a parte quelle di Disney Channel, proprio perché non si può chiedere di tutto ad attori di quell’età. Ebbene, PEN15 (fin dal titolo, una storpiatura di “penis” che suona tanto come un giochetto da ragazzini) fa proprio questo, creando un meraviglioso paradosso: mettendo in scena le prime pulsioni sessuali, i pensieri più assurdi, le fobie e le perversioni di due tredicenni, la serie ci ricorda cose che tutti abbiamo fatto a quell’età, ma che effettivamente sarebbe impossibile ricostruire sullo schermo usando veri tredicenni, perché sono cose così private, personali, e a volte imbarazzanti, da poter essere rappresentate solo da attrici che sanno cosa stanno facendo e scelgono di farlo.
Basta vedere, a titolo di esempio, i primi tentativi di masturbazione da parte di Maya, nella prima stagione: tentativi buffi, scoordinati, “ignoranti”, eppure estremamente sinceri nel rappresentare quell’età, che però non potrebbero essere messi in scena da un’attrice realmente così giovane. Cioè, si va in galera, tanto per capirci.
E quindi quello che succede è che PEN15 ci ricorda di quanto la prima pubertà di ognuno di noi sia così potenzialmente “estrema”, da non poter essere rappresentata nel modo più veritiero possibile, cosa che ci conduce in un viaggio nei ricordi che diventa in qualche modo catartico.

Non lo si vede solo in cose tutto sommato “banali” come la masturbazione, ma anche in tanti altri dettagli che le due autrici non hanno lasciato al caso, dando prova di un’opera di auto-osservazione per certi versi titanica, quasi da seduta psicanalitica (e non è un caso che la serie non sia ambientata ai giorni nostri, perché Erskine e Konkle avevano bisogno di basarsi sui loro ricordi, per essere davvero autentiche).
Si veda ad esempio il rapporto estremamente fisico fra Maya e Anna, due ragazze che stanno letteralmente sempre appiccicate, che si parlano con le facce a cinque centimetri l’una dall’altra. È una cosa che ci appare “strana”, considerando l’età effettiva delle attrici, e che ci fa pensare ad altri contesti seriali e cinematografici in cui una tale vicinanza solitamente conduce a rapporti più intimi e sessuali, che invece qui non sono contemplati, per il semplice motivo che effettivamente le ragazzine si comportano così, ma ce ne rendiamo veramente conto solo quando a rappresentarle sono due donne che ragazzine non sono.
Stesso discorso per il fatto che gli amici di Maya e Anna, e in particolare i ragazzi di cui si invaghiscono, appaiono sempre molto sostenuti, silenziosi, saggi, in una parola più adulti di loro, anche se noi vediamo benissimo che adulti non sono, perché in questo caso sono effettivamente interpretati da attori giovanissimi. Di nuovo, però, è una questione di entrare nella percezione delle protagoniste, che sentendosi inadeguate al contesto sociale in cui sono inserite dipingono con la loro mente tutta una serie di caratteristiche delle persone che le circondano che, quando saranno cresciute, ricorderanno con un sorriso e una mano sulla fronte tipo “mamma quant’ero scema”.

Tutto questo c’è già nella prima stagione.
Nella seconda, uscita un paio di settimane fa al momento di pubblicare questo articolo, le autrici provano a sviluppare ulteriormente il rapporto e la psicologia di Maya e Anna, mettendo fra le loro ruote dei bastoni di pericolosità crescente. Prima c’è la cotta (anche se il termine è riduttivo) per Brandt, il ragazzo che le ha palpeggiate contemporaneamente, facendole arrivare per la prima volta in “seconda base”. Poi c’è Maura, che inizialmente sembra essere la terza migliore amica in aggiunta alle prime due, ma che in realtà mette zizzania nell’inossidabile coppia. Arriva in seguito lo spettacolo teatrale, che porta Maya sul palco e Anna dietro le quinte, e chiede loro di ragionare con maggiore intensità sul proprio ruolo e priorità. E poi, forse soprattutto, c’è il divorzio dei genitori di Anna, che la costringe a entrare in un vita adulta per la quale non si sente minimamente pronta, e che chiede a Maya, che invece ha altri problemi suoi come una bassissima autostima, di supportare l’amica in modi che non sempre capisce o per i quali è pronta.
In qualche modo, nel suo far crescere i personaggi sia anagraficamente sia, soprattutto, mentalmente, la seconda stagione compie un’operazione insieme necessaria, ma anche in qualche modo suicida, perché è proprio nel momento in cui Maya e Anna venissero percepite come adulte, essendo sempre e comunque interpretate da adulte, che si spezzerebbe il gioco comico/rappresentativo che è il cuore della serie.

Allo stesso tempo, però, non c’è storia senza crescita e cambiamento, ed è quindi normale che, volendo raccontare le prime scoperte di due ragazze appena entrate nell’adolescenza, le due autrici debbano anche gestire e riconoscere i cambiamenti portati da quelle scoperte, che inevitabilmente conducono verso una vita adulta che non sarà l’oggetto di questa serie, ma è il traguardo a cui tutte le nostre giovinezze sono state dirette fin dal principio.
E la cosa bella, di PEN15, è mostrare quel percorso nelle sue parti più oscure e imbarazzanti, non per svelare la loro esistenza, ma piuttosto per costringerci a spogliarci della nostra forzata “adultità”, ricordandoci da dove veniamo.

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