1 Marzo 2011 3 commenti

Studio 60 on the Sunset Strip – Il flop di Aaron Sorkin di Marco Villa

La versione (più o meno) drama di 30 Rock

A volte capita. Serie che sulla carta dovrebbero stracciare record di ascolti e di premi e invece falliscono in modo clamoroso. Da un punto di vista commerciale, il caso più celebre degli ultimi tempi è senza dubbio Flash Forward, un titolo seriamente candidato a diventare un cult tra qualche anno, per la scelleratezza con cui è stato scritto e prodotto. Se passiamo invece sul versante “serie d’autore”, la palma di flop epocale va probabilmente a Studio 60 on the Sunset Strip, ovvero la serie che avrebbe dovuto santificare in modo definitivo Aaron Sorkin tra i grandi di Hollywood, ma che invece ne ha segnato l’allontanamento dalla televisione.

Studio 60 è andata in onda per una sola stagione su NBC, da settembre 2006 a giugno 2007, per un totale di 22 episodi. È ambientata nel dietro le quinte di uno show comico stile Saturday Night Live e segue le vicende del cast e della produzione, concentrandosi in particolare sul capo degli autori Matt Albie (Matthew Perry, nell’unico ruolo non-Chandler della sua carriera) e Danny Tripp (Bradley Whitford). Detta così, ricorda tremendamente 30 Rock, partita peraltro nello stesso periodo. La similitudine ci sta e si può parlare di due modi diversi di approcciare lo stesso tema. 30 Rock, con tutte le innovazioni del caso, è una comedy pura, mentre Studio 60 ha passo e tono più vicini al drama, pur avendo molti spunti comici in ogni puntata.

Studio 60 è la terza serie realizzata da Aaron Sorkin dopo Sports Night e The West Wing e rappresenta una sorta di summa dei due lavori precedenti. Dall’esordio prende lo sguardo al backstage televisivo, dalla seconda la volontà di ritrarre personaggi idealisti ed estremamente professionali, ma caratterizzati da un continuo abbandonarsi al gioco e allo scherzo. Questo aspetto è particolarmente evidente nel personaggio di Danny Tripp, di fatto la prosecuzione del Josh Lyman interpretato da Whitford nella Casa Bianca.

Come gli altri due titoli appena citati, più che sulle vicende, Studio 60 basa tutto sui personaggi, figure a cui ci si affeziona nel volgere di poche puntate. Se i primi episodi sono di ambientamento, a partire dal terzo il tutto decolla, fino ad arrivare a un equilibrio capace di offrire scene allo stesso tempo dense e leggere, veri gioielli di scrittura, messa in scena e recitazione. Fanno eccezione gli ultimi quattro episodi, di fatto una puntata non-stop di 160 minuti, all’interno della quale vengono chiuse tutte le storyline rimaste aperte. Scelta encomiabile, ma di fatto la serie vera e propria, con tutte le sue caratteristiche, finisce al diciassettesimo episodio.

Ma allora cosa non ha funzionato? La mia versione è che Sorkin e soci abbiano spinto un po’ troppo in là l’onnipotenza dei propri personaggi. Mi spiego: in The West Wing le sorti del mondo dipendevano dalle decisioni di un gruppo di simpatici burloni, ma ci sta, è la Casa Bianca, se non si decide il destino del pianeta in quel posto, non vedo dove ciò possa accadere. Qui, invece, i protagonisti sono persone che scrivono sketch. Geniali, vincenti, meravigliosi, ma pur sempre sketch. Un po’ difficile attribuire loro chissà quali responsabilità o capacità. Invece, lungo le 22 puntate, la sensazione è questa ed emerge in modo esplicito nelle 4 puntate finali, quando il gruppo si mette al telefono per organizzare in prima persona il rilascio di alcuni militari prigionieri in Afghanistan. Un po’ troppo, forse.

Non è un caso che, per il suo ritorno alle serie dopo l’Oscar di pochi giorni fa, Aaron Sorkin abbia deciso di puntare su un compromesso. Il pilot in via di realizzazione per HBO si occuperà ancora di un dietro le quinte televisivo, ma stavolta saremo nella redazione di un canale all-news, ovvero il luogo in cui possono entrare sia spettacolo che attualità e in cui forse non si condizionerà la vita dell’umanità, ma l’agenda politica sì. Come ha scritto il New York Magazine, è tipo la serie per cui Sorkin sembrerebbe essere nato. Da queste parti si è in febbrile attesa, va da sé.

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