17 Ottobre 2011 10 commenti

Fringe – La quarta stagione e gli universi paralleli di Marco Villa

Seghe mentali come se non ci fosse un domani

Copertina, I perché del mondo, On Air

In questo sito c’è un rilevatore che ci permette di approvare o meno le idee di post che ci vengono. Si chiama “nerd alert” ed è quello che ci tiene lontani da infinite discussioni sulla plausibilità o meno di certe serie o sull’accuratezza nella trasposizione fumetto-tv di The Walking Dead. In sostanza, non ce ne frega niente. Guardiamo, divertiamoci e morta lì. A volte, però, anche ciò che è segnalato dal nerd alert passa. Ed è quando incontra la sega mentale. A un ragionamento finissimo, di alto livello linguistico e del tutto prescindibile, non sappiamo resistere. Ecco, questo post è un segone mentale che mollami e che fa trillare il nerd alert. Auguri.

Si parla di Fringe, come il titolo vi avrà suggerito. No, non si parla però delle quattro scialbe puntate che hanno aperto la stagione. Anzi, delle tre puntate e 30 minuti scialbe + dieci minuti interessanti. Perché l’avvio di questa quarta stagione è stato decisamente sottotono, diciamolo. Dal prossimo episodio le cose dovrebbero cambiare drasticamente, ma vedremo. Oggi si parla della scrittura di Fringe.

Come già per Alias e Lost – e come potrebbe essere anche Alcatraz, così a naso – la scrittura di Fringe si basa sul semplice metodo dell’accumulo: buttiamo dentro di tutto e non preoccupiamoci minimamente di come faremo a giustificarlo. Una scelta potenzialmente suicida, in realtà capace di entusiasmare tanti spettatori, che anzi si lamentano (vedi capoverso precedente) quando per tre puntate si viaggia a ritmo ridotto. Ormai un marchio di fabbrica per J.J. Abrams e il suo giretto di amici.

Rispetto alle serie citate, Fringe fa un ulteriore passo avanti. Il timore di molti autori di telefilm è quello del famigerato salto dello squalo, ovvero di raggiungere un punto di non ritorno in termini di credibilità, spingendo troppo al limite la sopportazione dello spettatore. Bene, non solo gli autori di Fringe non hanno alcuna paura di questo momento cruciale, ma hanno fatto del salto dello squalo una pratica sistematica, cui ricorrere senza alcuna remora. Rientrano in questa linea il parto accelerato di Bolivia, Olivia posseduta da Bell e l’immagine imbarazzante di Peter che entra nel catafalco robotico. Non tutti possono permettersi queste esagerazioni: Flash Forward, per dire, è andato a puttane per cose meno eclatanti. Fringe, no, Fringe ha ormai fondato la sua identità su questo e chi è arrivato alla quarta stagione non se ne lamenta più, perché ormai tutto è talmente oltre che non ci si fa più caso.

Tutto questo ha però una gigantesca eccezione: gli universi paralleli. Questa logica dello “spieghiamo tutto come cazzo ci pare” crolla di colpo quando si va a cercare di capire quali sono i rapporti tra i due universi. Si tratta – di fatto – dell’impalcatura dell’intera serie: passi per gli eventi minori, ma qui una teoria ci vuole. E invece la teoria è: pieghiamo affinità e divergenze tra i due universi a seconda della nostra utilità. La tanto sbandierata teoria del multiverso prevede che, in ogni situazione di scelta, si creino tanti universi alternativi quante sono le scelte possibili. Un po’ come accade con il fuggitivo della puntata 4×02: Astrid dice “può aver preso 219 possibili strade alternative, più passano i secondi, più le alternative aumentano in modo esponenziale”. Logico, no?

Però è altrettanto logico che agli autori faccia gioco avere due universi con pochissime differenze e in cui i personaggi abbiano più o meno lo stesso carattere, gli stessi istinti e abbiano preso scelte solo leggermente differenti. Il problema è che questo non sta in piedi: per il discorso precedente, anche la pur minima divergenza tra gli universi avrebbe dovuto produrre sconquassi inimmaginabili. Figuriamoci quali distanze dovrebbero avere nell’arco di anni e decenni. Invece è come se gli universi paralleli si resettassero al momento della nascita di ciascun individuo: quello che è avvenuto prima non conta. Si nasce uguali in entrambi gli universi e si procede poi su percorsi sottilmente diversi. Si ha così un Walter che da una parte è un pazzoide e dell’altra un freddo calcolatore o Astrid che di qua è dolce e materna e di là sembra un Abed di Community applicato all’intelligence. Ma ci sono anche un Broyles che è esattamente identico tra le due situazioni (a proposito, ma Broyles è diventato capo della Fringe Division di tutti gli universi e si mette la maglietta della salute quando è di là e la giacca quando è di qua?), per non parlare di tutti i personaggi minori delle singole puntate, che finiscono sempre per essere del tutto sovrapposti (il prof/serial killer della 4×02 con le stesse foto nei due universi).

Ma com’è possibile che le differenze siano così poche, visto il grado di caos cui accennava Astrid? Ebbene, l’unica risposta che mi sono dato è che c’è un disegno superiore. Chiamatelo destino, chiamatelo dyo, chiamatelo osservatore calvo, chiamatelo Milo Rambaldi, chiamatelo Salvatore Bagni. Ma qualcosa c’è. E visti i precedenti di Lost, non sarebbe tanto sorprendente. Sia chiara però una cosa: se alla fine di tutto, risolvono la serie buttandola sul mistico, io mi incazzo eh.

Postfazione di Diego Castelli
Caro Villa, tu non puoi chiedermi “dai un occhio al mio pezzo per vedere se trovi refusi”, sollevare un problema così clamoroso, e sperare che io non dica la mia, su!
Nelle tue poche, sagge righe, sollevi un quesito assai antico. E i tuoi dubbi sono sacrosanti. In una teoria del multiverso che prevede così grandi differenze in seguito a ogni singola scelta o casualità, sembra impossibile avere un universo alternativo così simile al primo. Basta considerare una semplice verità: ognuno di noi esiste in un certo modo non solo in quanto esito finale di un determinato tipo di sviluppo post-natale, ma anche, banalmente, per questioni genetiche legate al momento del concepimento. Ognuno di noi è diverso dai suoi fratelli e sorelle, perché le condizioni di riproduzione sono ogni volta diverse. Questo per dire che se i miei genitori mi avessero concepito un mese prima o un mese dopo, Diego Castelli sarebbe una persona molto diversa da quella che sono io, psicologicamente e somaticamente. In una teoria del multiverso come quella suggerita da Fringe, questo tipo di logica dovrebbe portare a un’unica conclusione: l’universo alternativo dovrebbe essere popolato da persone completamente diverse da quelle di questo mondo. Perché dall’altra parte, scelte diverse avrebbero portato a vite diverse, a persone diverse, a “lontani cugini” geneticamente differenti dagli abitanti dell’aldiqua. In Fringe, invece, Olivia Dunham è stata concepita nello stesso modo e nello stesso momento dagli stessi genitori (altrimenti non avrebbe quella faccia). Ma come è possibile questo, considerando la mole di influenze che mamma e papà Dunham devono aver subito dal fatto di abitare in un universo differente dal nostro?
Caro Villa, la tua paura è il classico timore del fan di fantascienza, che vuole essere stupito e ingannato da invenzioni che appaiono logiche, ma che da qualche parte hanno inevitabilmente qualche falla. La fantascienza, in fondo, si basa sulla capacità di far passare per plausibili idee e situazioni che, per quella che è oggi la nostra conoscenza del mondo, plausibili non sono.
E tuttavia, secondo me, devi stare sereno. Perché è vero che possiamo ancora contare su una conclusione che dia senso al tutto, che espliciti quello che tu chiami disegno superiore. In realtà, però, potrebbe non essere necessario, perché la stessa teoria del multiverso offre una scappatoia. Malgrado il ragionamento ci porti a giudicare implausibile la somiglianza del nostro universo e di quello “alternate”, allo stesso tempo la teoria del multiverso dice che il numero degli universi paralleli è virtualmente infinito. Infinito. Indi anche le sue possibilità sono infinite. Perciò, a rigor di logica, è del tutto plausibile che, tra gli infiniti multiversi, ve ne sia anche uno che presenta tutte le caratteristiche dell’alternate universe di Fringe.
La domanda da porsi, a quel punto, sarebbe la seguente: com’è che i nostri, tra tutti gli universi possibili, sono capitati proprio in uno così simile al loro?
E la risposta, in questo caso, sarebbe “culo”.



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