19 Giugno 2025

Il Baracchino – La nicchia giusta, la nicchia bella di Diego Castelli

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E poi ogni tanto arrivano serie piccole, piccolissime, che lo sanno di non potersi rivolgere a una grande massa di pubblico (buona parte del quale le rifiuterà al grido di “cos’è sta roba?”), ma che allo stesso tempo sanno che ci sarà invece una ridotta fetta di spettatori e spettatrici che in qualche modo capirà, apprezzerà, “sentirà”, e quella piccola fetta sarà sufficiente per pensare di aver portato a casa qualcosa di importante.

È il caso de Il Baracchino, serie animata italiana di Prime Video, che sembra avere tutto quello che serve per allontanare qualunque pubblico generalista, ma costruisce un piccolo percorso di sperimentazione narrativa e soprattutto visiva, che trova il suo valore proprio nel “volerci provare”, nel giocare con i confini e i limiti di quello che normalmente viene considerato efficace sul piccolo schermo.
Cose che, di solito, troviamo in prodotti più esteri che in quelli tricolore.

Creata da Nicolò Cuccì e Salvo Di Paola, prodotta fra gli altri dalla Lucky Red di Andrea Occhipinti (che anche a livello di distribuzione cinematografica ha un occhio di riguardo per l’animazione non americana), Il Baracchino chiarisce la sua indole già a partire dalla scelta del tema e del contesto: parliamo di stand up comedy, una forma di spettacolo che nel nostro paese è stata protagonista di una forte accelerazione negli ultimi anni, ma che fuori dalle bolle di internet resta tuttora una pratica per pochi.

La protagonista della serie è Claudia (doppiata da Pilar Fogliati), la nipote di una comica di successo ora passata a miglior vita, che prova a ridare vita al Baracchino, un locale di cabaret posseduto dal burbero Maurizio (con la voce di Lillo), che si trova ormai sull’orlo della chiusura.
Per salvare il locale dove l’amata zia ha costruito tanti ricordi leggendari, Claudia pensa di organizzare una serata di stand up, con l’unico problema di avere a disposizione solo un gruppo di comici senza arte né parte, male assortiti, strambi, inadeguati. Insomma, una massa di sfigati che forse non riuscirà nemmeno a salire sul palco.

E quale migliore occasione, dovendo doppiare un gruppo di comici, per ingaggiare un po’ di voci famose della stand up italiana? Ecco allora Leonardo Da Vinci (proprio quel Leonardo) doppiato da Edoardo Ferrario; il piccione Luca con la voce di Luca Ravenna; la coppia di Tintoria Daniele Tinti e Stefano Rapone, rispettivamente nei panni di John Lumano (alieno con la fissa di passare per homo sapiens) e della Morte; Noemi Ciambell, ciambellona doppiata da Michela Giraud; un’altra donut, non a caso chiamata Donato, interpretata da Frank Matano; la dinosaura Tricerita, alter ego di Yoko Yamada; Gerri, il tuttofare del locale, doppiato da Salvo di Paola; e infine Larry Tucano, l’unica vera star comica del gruppo, con la voce di Pietro Sermonti.

Di per sé, il pur rilevante fatto che Il Baracchino sia un cartone animato italiano ambientato (e doppiato) nel mondo della stand up comedy, non è il vero motivo di interesse per la serie, perché ce ne sono altri due più importanti.

Il primo riguarda l’aspetto: Il Baracchino, con una foga sperimentale che vediamo raramente, anche oltre il confine italico, è animata con molte tecniche diverse che si compenetrano. Animazione tradizionale, grafica computerizzata, stop motion e perfino vere e proprio marionette mosse da fili, tutto insieme su un’unica scena, tutto mescolato e rimasticato per dare allo show un aspetto particolarissimo e subito riconoscibile.

E il bello è che non una sperimentazione fatta tanto per fare, ma pensata e calibrata anche sulle caratteristiche dei personaggi: così, per esempio, ha assolutamente senso che John Lumano sia un pupazzo dalle proporzioni tutte sbagliate, perché rende ancora più assurdo il fatto di essere palesemente un alieno che vuole passare per una persona (è “diverso” anche in mezzo a tutti gli altri folli personaggi).
Chi ha bisogno di una espressività maggiore, come Claudia o Maurizio, riceve l’aiuto dell’animazione, mentre altri personaggi che per semplice biologia tendono a essere meno espressivi (come il piccione Luca) possono limitarsi alla stop motion.

Lo stesso uso del bianco e nero, che inizialmente sembra giusto un vezzo da finto noir d’annata, trova in realtà una spiegazione molto semplice e molto convincente (che non spoilero) nel penultimo episodio della stagione.

Se l’aspetto de Il Baracchino è ciò che inevitabilmente attira subito l’attenzione, la sua scrittura non è da meno. Teoricamente inserita in un piccolo filone che ormai contiene anche Zerocalcare, quello cioè delle serie animate teoricamente comiche ma che si tengono un ampio margine di agrodolce se non di vero e proprio dramma, Il Baracchino riesce a fare perfino un passo in più, diventando una specie di incrocio, per lo meno nelle intenzioni, fra Boris, The Office e Bojack Horseman.

Qui e là si ride, e magari si ride anche di gusto, ma Il Baracchino non cerca quasi mai la risata sguaiata e senza pensiero. Anzi, c’è sempre dietro una riflessione, una malinconia, uno struggimento di fondo. La gloria del tempo che fu, che getta un’ombra profonda sulle miserie del presente, non abbandona mai i personaggi, la cui inettitudine è sì divertente, ma a volte anche pietosa.

Il Baracchino è una serie profondamente metatestuale, dove si sprecano le battute sulla sua stessa messa in scena, dove si accumulano interpellazioni dirette allo spettatore, dove la surrealtà stessa del mondo raccontato (dove possono stare insieme la Morte, Leonardo Da Vinci, ciambelle parlanti e unicorni) è costantemente oggetto stesso della narrazione, del discorso, e naturalmente della comicità.

Il Baracchino non è una serie facile perché non è facile la sua comicità (spesso più cringe e “strana” che esilarante), non è facile il suo aspetto, non è facile nemmeno il suo colore. A non saperne niente, viene davvero da pensare “ma cosa sto guardando?”, e vi confesso che nei primissimi minuti è successo anche a me.

E però, se le si dà un po’ di spago, Il Baracchino diventa una storia struggente, una riflessione non banale sul tempo, il lutto e la capacità di reazione umana. E la sua collezione di sfigati uniti da un obiettivo comune, tutti in cerca di un riscatto che forse non meritano come professionisti, ma certamente come “persone” (fra virgolette), è una cosa che scalda il cuore, facendo rientrare dalla finestra quell’emozione di pancia, da Hollywood dei bei tempi, che era uscita dalla porta di una realizzazione così ardita e particolare.

Come a dire che le storie le puoi raccontare come vuoi, le puoi infarcire di qualunque pazzia sperimentazione, ma se poi le riempi di umanità, funzioneranno comunque.

Perché seguire Il Baracchino: da certi punti di vista, è una delle “cose seriali” italiane più originali… beh forse di sempre.
Perché mollare Il Baracchino: per cento e uno motivi è una serie destinata a una certa nicchia, e non è obbligatorio far parte di quella nicchia.



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