12 Gennaio 2023

Welcome to Chippendales – Buone serie arrivate tardi di Diego Castelli

Ecco a voi i Chippendales, su Disney+, è una miniserie biografica di cui non puoi dire niente di brutto, se non ce l’hai già vista

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Immaginate di essere al liceo o all’università (se già non ci siete, maledetti giovinastri). Avete un esame e vi siete preparati alla grande, studiando bene, capendo tutto, sapendo argomentare con passione. Avete anche prodotto una tesina di 50 pagine ben scritta, ben impaginata, perfettamente centrata sulla materia. Siete pronti a spaccare tutto, niente vi può fermare.
E poi, per sbaglio, vi presentate all’esame il giorno dopo la data stabilita.
Ora della vostra preparazione e della vostra tesina abilmente rilegata non frega più niente a nessuno.

Questa, per quanto estremizzata per esigenze di intrattenimento, è la situazione di Welcome to Chippendales, in italiano “Ecco a voi i Chippendales”, serie di Hulu debuttata negli Stati Uniti lo scorso novembre ma arrivata sul Disney+ italiano solo nelle ultime settimane.

Creata da Robert Siegel, già sceneggiatore di The Wrestler e The Founder, e interpretata da Kumail Nanjiani (più altre facce note come Murray Bartlett di The White Lotus, Annaleigh Ashford e Juliette Lewis), Welcome to Chippendales racconta la storia vera di Somen “Steve” Banerjee, indiano immigrato negli Stati Uniti che, alla ricerca del sogno americano, fondò un night club in cui, nel 1979, introdusse uno spettacolo di spogliarello maschile che fu il primo del suo genere in tutta la nazione (e che esiste ancora oggi).

Ma la storia non finisce qui perché, dietro i lustrini, i corpi muscolosi e le coreografie da spettacolo di Broadway, si nasconde anche un’inaspettata storia di omicidio e vendetta, faide sanguinose e una versione oscura di quello stesso sogno americano che può favorire grande inventiva e immaginazione, ma anche ossessione e follia.

Welcome to Chippendales è una buona serie. E lo è perché unisce tutti gli elementi che, in quantità e composizione variabile, associamo solitamente alla qualità televisiva: una storia vera abbastanza particolare e succosa da sembrare finta; una ricostruzione storica che, in termini visivi, percepiamo come ricca e accurata; buoni interpreti piazzati nelle parti giuste; una scrittura che riesce a coniugare la curiosità prettamente storica alla creazione di una tensione che cresce; il passaggio molto fluido da un’effettiva storia di riscatto e ingegno, a una di violenza e odio.

Giovandosi del formato a miniserie, che aiuta a non sbrodolare niente e, anzi, talvolta dà l’impressione di affollare troppi avvenimenti in poco tempo (ma almeno non annoia), Welcome to Chippendales racconta una storia meritevole di ascolto e che ci lascia una sensazione di rotonda pienezza.
Con la necessità, in tutto questo, di sottolineare la chimica fra quelli che sono di fatto i due protagonisti, Kumail Nanjiani e Murray Bartlett, perfetti nell’interpretare lo scontro inevitabile fra una mente ambiziosa e calcolatrice (e segnata da un profondo e radicato senso di inadeguatezza), e una personalità altrettanto ambiziosa ma molto più estroversa, creativa, spumeggiante, ribelle.

E quindi dove sta il problema? Perché questa serie non sta nella top ten del 2022?
Come si diceva più sopra, Welcome to Chippendales è arrivata tardi. E non perché parli di cose che sentiamo tutti i giorni, ma perché quelle cose, e quelle atmosfere, sono state comunque esplorate da prodotti che ci sono rimasti in qualche modo in testa, saturando uno spazio che era libero ma non troppo grande.

Per essere più chiari, i due film di Magic Mike non sono stati seguiti da ottocento film sullo spogliarello maschile, eppure sono ancora lì a dirci che non ci serve altro su quel fronte, ancora per un po’. Allo stesso tempo, le atmosfere pruriginose di fine anni Settanta ci suonano almeno in parte già conosciute per una serie di titoli che abbiamo visto in questi anni, che magari non hanno nemmeno spaccato, ma che al nostro occhio di serialminder compulsivi hanno già segnato un solco: penso a Minx, a The Deuce, a Vinyl.

Il risultato, un pochino paradossale, è che Welcome to Chippendales diventa un chissenefrega, anche se non se lo merita di essere del tutto ignorata, e anche se probabilmente è più solida e scorrevole di quegli stessi titoli di cui è in qualche modo erede.

Una serie da 7 in pagella, in un sotto-genere per il quale non c’era e non c’è grande fame, e che così finisce per passare sotto silenzio più di una serie da 6 appartenente a un genere che invece cercano tutti.
Se poi allarghiamo lo sguardo anche oltre gli anni Settanta, abbracciando miniserie come Pam & Tommy, o The Dropout, o Dopesick, ci accorgiamo che un’ulteriore barriera è rappresentata dal fatto che non conosciamo la storia a priori: Pam & Tommy ci attira perché ci ricordiamo dei due protagonisti, così come The Dropout riesce a essere attualissima per via del fatto che racconta la vicenda criminale di una tizia che stava per essere condannata nei giorni di uscita della miniserie (e fra parentesi, complimenti ad Amanda Seyfried per il golden globe).

Welcome to Chippendales, invece, non riesce a imporre la prurigine dello strip maschile perché ormai non fa più notizia, racconta la storia di un tizio di cui nessuno si ricorda, e non ha agganci reali col presente, se non la voglia di riesumare un aneddoto effettivamente meritevole di conoscenza, ma di cui la gente non ricorda nulla.
Tutto il resto funziona, e non è poco, ma in un mondo soverchiato da stimoli continui e perennemente urlati, Welcome to Chippendales non riesce a fare la voce grossa.

Perché seguire Welcome to Chippendales: è una miniserie ben scritta e ben girata, che racconta una storia vera piuttosto interessante.
Perché mollare Welcome to Chippendales: se siete serialminder di lungo corso, troppe cose vi suoneranno già sentite, anche se magari le avete sentire… meno di altre.



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