2 Novembre 2022

Inside Man – Netflix: Stanley Tucci e David Tennant in una serie confusa di Marco Villa

Inside Man parte forte, con un umorismo nerissimo e una situazione paradossale, ma poi si avvita su se stessa e si butta via da sola

Pilot

Ognuno ha le sue: qualcuno non sopporta l’horror o il sangue, io non sopporto l’angoscia. Ma un tipo particolare di angoscia, quella che mi deriva dalla visione/lettura di una storia in cui il personaggio principale è una persona con una vita tranquilla, che viene spazzata via da un evento singolo e incontrollabile. Motivo per cui a suo tempo impiegai secoli per finire The Night of e non provai nemmeno ad andare oltre il primo episodio di Your Honor. Ripeto: ognuno ha le sue. In questo campionato (e campionario) delle angosce, Inside Man (produzione BBC, disponibile su Netflix) fa gara a sé, perché porta tutto all’estremo: casualità, inadeguatezza, conseguenze. Spingendosi però un po’ troppo in là.

“Everyone’s a murderer, you just need a good reason and a bad day”
Ovvero: Chiunque è un assassino, ti serve solo una buona ragione e una cattiva giornata.
La frase è potente e rende benissimo l’idea di base di Inside Man, ovvero che chiunque si possa ritrovare dalla parte sbagliata di un’aula di tribunale, dove per “sbagliata” si intende con addosso un’accusa da cui non avrebbe mai immaginato di doversi difendere. È puro fatalismo ed è quello che sostiene Jefferson Grieff (Stanley Tucci), condannato a morte che, da un carcere statunitense, presta i propri servigi da Sherlock Holmes a persone che hanno bisogno di aiuto per risolvere misteri e casi. Con lui c’è Dillon (Atkins Estimond), anche lui in attesa della pena capitale. Già qui c’è la differenza alla base di tutto: Dillon è un pluri-omicida sadico e perverso, Grieff è uno stimato professionista che ha ucciso la moglie. Le provenienze sono diversissime, ma entrambi sono lì per lo stesso motivo e con lo stesso finale già scritto: fatalismo, here we go.

La seconda macro-trama è dall’altra parte dell’oceano e riguarda un parroco di provincia, interpretato da David Tennant. In una giornata qualsiasi, un parrocchiano gli dà una chiavetta, chiedendogli di custodirla per non farla trovare alla madre, perché contiene dei video porno. Il parrocchiano è uno con problemi di salute mentale e il prete decide di aiutarlo. Quella chiavetta finisce nelle mani di Janice (Dolly Wells), una donna che fa da tutor al figlio del parroco: si scopre così che non si tratta di porno, ma di pedo-porno. La donna si convince che sia roba scaricata dal figlio del prete e quest’ultimo, per salvare la situazione, decide di imprigionarla in cantina, in attesa di capire il da farsi. La ucciderà? Non la ucciderà? Ecco il dilemma ed ecco tornare a quella frase su assassini, ragioni e cattive giornate.

Ora, c’è anche un ulteriore elemento, ovvero Beth, una giornalista (Lydia West) che fa da ponte alle due storie, ma questo livello viene attivato realmente solo nella terza puntata (su quattro): si tratta della parte meno interessante e più artificiosa, all’interno di una serie che di artificioso ha davvero già troppo.

La sensazione è che Inside Man siano troppe cose incastrate una dentro l’altra: la storyline di Stanley Tucci potrebbe essere la base per una procedurale vecchio stampo, così come la vicenda di David Tennant è il tipico racconto che può reggere in solitaria con colpi di scena e tensione. Mischiati, il totale è inferiore alla somma delle parti, anche perché tutto è ricoperto da uno strato di umorismo nerissimo, che in fondo è uno degli aspetti più interessanti della serie, ma di fatto è un ulteriore livello di caratterizzazione (e potenziale confusione).

Tutto questo, però, arriva da un pezzo da novanta della serialità britannica: Steven Moffat (Doctor Who, Sherlock) è accreditato come creatore e firma la sceneggiatura di tutte le puntate, ma la sensazione è che stia continuando un suo personale stress-test del formato seriale. Un approccio iniziato con le ultime puntate di Sherlock e poi portato avanti con il mezzo fiasco di Dracula. Inside Man prosegue su questo binario, lavorando esclusivamente per accumulo di temi, toni e situazioni. Più che il racconto di una storia sembra più un esperimento su come raccontare una storia, insomma.

Alla fine di tutto, però, Inside Man perde di linearità e pure di credibilità: la vicenda del vicario è costellata di momenti di cattiva scrittura, in cui le svolte della trama sono sempre meno plausibili anche in un’ottica di “qualunque cosa possa andare storta, andrà storta”.

Allo stesso modo, il personaggio di Tucci tiene benissimo finché è totalmente in controllo della propria situazione, ma diventa fragile (come scrittura, non come psicologia) quando viene messo spalle al muro. Di nuovo: troppa roba. Ed è un peccato, perché il primo episodio di Inside Man cattura per tono e per ritmo. E pure per angoscia, tornando all’inizio.

Perché guardare Inside Man: per l’umorismo nerissimo

Perché mollare Inside Man: perché il totale è inferiore alla somma delle parti



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